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Sharp Objects

La pelle ci contiene: raccoglie e protegge il nostro interno, lo tutela dall’esterno e al contempo lo mette in relazione con esso. Permette di stabilire un contatto: è il luogo di incontro e di scambio. La pelle, ricca e densa di recettori, registra le prime informazioni sensoriali e conserva le prime esperienze relazionali: è il confine che ricorda come siamo stati accarezzati, tenuti a distanza o abusati. É la tela segnata dalla nostra storia, che illustra e racconta la nostra identità, ci definisce, parla di noi. La solidità dell’io è come la nostra pelle, più o meno capace di essere quel necessario e delicato involucro che avvolge e riveste il nostro apparato psichico e i suoi contenuti e filtra il mondo che ci circonda. L’io come la pelle può essere violato: portare i segni e le tracce di un’occupazione, di una colonizzazione, di un limite che non è stato rispettato e amato. La pelle può allora diventare la tela che viene brutalmente incisa, martoriata, bucata, il luogo dell’assedio dell’Altro, delle sue indelebili e dolorose tracce, che lacerano la possibilità di potersi ancora sentire, incontrare, toccare, contattare, accettare, amare e lasciarsi amare.

La relazione così come ha il potere di ferire, può, allo stesso modo, lenire, curare, riparare quel confine danneggiato.

Camille, protagonista di Sharp Objects, interpretata da una sublime Amy Adams, è il l’intimo e potente racconto di questo e molto altro.

“Sharp Objects”, Jean-Marc Vallée, 2018

Transizioni

L’incertezza di questo tempo ha sorprendentemente consolidato una consapevolezza: la stanza di analisi potrà transitare, se necessario, pur preservando la sua accoglienza, il suo potenziale contenitivo e trasformativo..poiché non esiste luogo sicuro per coltivare una relazione, che non sia prima di tutto interiore.

Buon Compleanno Sigmund Freud

“Se non potrò muovere le potenze del cielo, solleverò quelle dell’inferno”

Grazie al coraggio di Sigmund Freud per aver offerto ospitalità a tutto ciò che l’uomo ha sempre tentato di eludere ed escludere dalla propria consapevolezza, come un intruso, come traccia dell’ingovernabile, dell’imprevedibile lato oscuro, in quanto sconosciuto, straniero, collocandolo al di là di un confine, solo illusoriamente, invalicabile. È così che ha aperto la strada alla profonda conoscenza dell’uomo, con temerarietà, quella di colui che oramai affermato, ad una conferenza, piuttosto che mettere a tacere, reprimere la voce di un “disturbatore”, scelse di dargli la parola ed ascoltarlo.

In transito

Le parole che aiutano a dare un significato, parole che aiutano a sostenere un momento così delicato.. ad aprire orizzonti possibili. È anche questo un tempo da vivere, questa “instabile zona di mezzo che stiamo percorrendo” tra ciò che stiamo lasciando e ció a cui ci stiamo aprendo. Siamo chiamati ad immaginare una realtà sicuramente diversa, poiché in fondo ogni “guarigione” non è il ripristino dell’integrità precedente, ma rappresenta un cambiamento di stato, la creazione di un nuovo equilibrio.

“Compito di una comunità è certamente quello della protezione della vita, soprattutto dei soggetti più fragili, ma è anche quello, come accade nel mito biblico del profeta Noè, sopravvissuto alla catastrofe del diluvio, di saper piantare la vigna. Le parti migliori di noi e del nostro Paese sono quelle che assomigliano a Noè; il “resto salvato” dalla distruzione, le forze positive che resistono alla devastazione del male. Ma nel nostro caso la vigna esige di essere piantata anche se attorno c’è ancora morte e distruzione. Non potrà accadere alla fine del diluvio, ma in una zona di transito, fatalmente incerta. È questa la durissima prova di realtà che questo trauma collettivo esige e che non si potrà rinviare. È l’angoscia di non riuscire a rappresentarci come saremo e cosa diventeremo in un tempo che non ci permette di scindere il passato traumatico dall’avvenire del ricominciamento. È l’instabile zona di mezzo che stiamo percorrendo: non la luce o le tenebre, ma la luce obliqua nelle tenebre; non la paura o il coraggio, ma il coraggio nella paura. Non potremmo più essere quello che siamo stati ma non sappiamo bene ancora cosa potremmo diventare. Quello che è certo è che quello che diventeremo non è già stato, non potrà essere quello che siamo già stati. Non più dopo questo trauma. È questa la nostra paura più grande. Ma come diceva bene Jung: “Là dove è più grande la paura, questo è il nostro compito”.

Massimo Recalcati – La Repubblica 12/04/2020

Sentinelle sullo schermo

“In nome della ragione costitutiva del loro lavoro, appunto, l’umanità della relazione, gli analisti possono uscire dalla nicchia degli studi professionali e riconoscere di essere quello che il loro impegno li fa essere, cioè “sentinelle” delle relazioni, posti per propria scelta (nessuno ci obbliga a fare gli analisti) sulle mura delle città a cogliere ogni segnale di infezione, di malattia possibile, di degenerazione in termini di umanità.

Torna utile anche oggi il versetto di Isaia (21, 11-12): «Sentinella, a che punto è la notte?» […] E la sentinella risponde: «Viene la mattina, e viene la notte». Ecco, esser vigili nella consapevolezza di una verità psicologica: che la notte buia è culla del sole mattutino.

Attenti, però: la luce non è in fondo al tunnel, come solitamente si dice, ma in ogni passo che compiamo”

Marco Garzonio, psicoterapeuta junghiano

Articolo completo:
http://fondazionefeltrinelli.it/sentinelle-sullo-schermo-del-coronavirus/

A cosa serve l’Analisi?

L’analisi serve ad avere una visione della propria realtà nascosta, del centro vitale di sé che, non riconosciuto nel suo valore identitario, condiziona ampiamente i comportamenti e produce quei sintomi psicosomatici che in genere motivano la richiesta di analisi. Si parte dai sintomi per esplorare quel labirinto che la psiche è in se stessa e per uscirne con un sovrappiù di senso e di visione che approfondiscono e ampliano la conoscenza di sé e, per naturale estensione, del mondo.

I sintomi recedono per amplificazione simbolica, non per riduzione materialista.

I poli dell’analisi sono due: la ricerca delle cause nascoste del malessere, bloccate tra le trame del romanzo familiare e nondimeno la ricerca delle possibilità di espressione e di autodeterminazione che la psiche ha ancora in serbo e che non erano state viste esattamente come non erano stati visti i danni. Nella sua accezione più generale, ma anche più essenziale, l’analisi è un processo di trasformazione che paradossalmente fa tornare l’Io cosciente al proprio nucleo essenziale, quello che per varie ragioni, legate per lo più a richieste inadeguate dell’ambiente, è stato tradito, non visto, non riconosciuto.

Carla Stroppa

In fondo la psicoanalisi nella profondità del suo sguardo e, al contempo, nel calore di una relazione sicura, offre sì un percorso che collateralmente cura il sintomo, ma essenzialmente svela, ripara e restituisce il valore del proprio Sè e il vitale significato della propria esistenza.

Ridi Pagliaccio

“Ridi, Pagliaccio… e ognuno applaudirá!

Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto;

in una smorfia il singhiozzo e ‘l dolor…

Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto

Ridi del duol che t’avvelena il cor”

Joker esprime in modo intenso la complessità della sofferenza nei suoi controversi aspetti, da quello umano disperato ed atroce, a quello sociale, assistenziale e politico. Non molto lontana dal film, la nostra realtà quotidianamente convive con una situazione estremamente precaria da un punto di vista sanitario nel rendere disponibili trasversalmente percorsi di supporto psicologico, ma soprattutto, ancora oggi, arranca umanamente nel poter offrire uno spazio dignitoso a coloro che appaiono in una forma distante da un’ideale comune di normalità:

“La cosa peggiore nell’avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non ce l’hai”

Sono parole che comunicano il dramma interno di chi ogni giorno combatte contro se stesso, in un contorsionismo difensivo, nel cercare di contenere, o forse meglio dire “soffocare”, la propria sofferenza, per essere accettato, riconosciuto, ascoltato.

È molto importante lasciare che tutto questo possa risuonare emotivamente in ognuno di noi, NON per giustificare il percorso che può condurre una vittima a diventare un carnefice, ma per comprendere quale tragedia si consuma in luoghi interiori, non molto distanti da noi.

Ispirazioni Orientali. Psicoterapia come Arte, tra riparazione e creatività.

L’antica pratica del Kintsugi, testimonianza estetica della riparazione, evoca la possibilità di abitare il dolore negli urti della vita. Ogni vita è segnata da particolari cicatrici, potremmo dire che l’unicità di ciascun individuo, la sua singolare individualità è forgiata anche dagli eventi che l’hanno ferito. Freud paragonava infatti la struttura psichica di ciascun individuo ad un cristallo, caratterizzato da specifiche linee interne di scissione. Nel momento in cui il cristallo cade e si infrange, non lo fa in modo arbitrario, ma si rompe seguendo le sue linee interne di sfaldatura. Questo evidenzia due fattori importanti: sia che in quanto individui siamo caratterizzati da vulnerabilità soggettive che ci rendono sensibili e predisposti ad incrinarci in determinate situazioni, sia che le ferite sono parte della nostra natura. La psicoterapia, come processo creativo, è simile all’attività artistica, in quanto pone l’individuo nella possibilità di (ri)pensare se stesso proprio a partire da una continuità con il suo passato: come nell’arte del Kintsugi, nella psicoterapia, la linea di frattura, simbolica di un evento traumatico, non vuole essere cancellata, bensì accolta e valorizzata, ospita il dolore e ne conserva il significato. La crepa assume la valenza di una memoria che arricchisce l’opera, la rinnova, infonde quindi vitalità, ricostruisce un nuovo equilibrio tra le parti, unico ed irripetibile. Nondimeno importante è la dimensione di cura, intrinseca nell’antica tecnica giapponese: anziché sostituire l’oggetto, il restauro esprime la premura di ripararlo in modo prezioso. Riparare vuol dire quindi offrire l’opportunità di trasformare le ferite in feritoie: proprio laddove sembra esserci soltanto distruzione e perdita si apre la possibilità di una nuova vita.

Quale Cura?

In una società essenzialmente narcisista votata al successo personale e all’approvazione, é molto difficile parlare di Cura. Oggi più che mai l’individuo è spinto a consolidare i propri confini, nell’illusoria credenza che eludere la propria e altrui dimensione interna, non sempre così rassicurante, sia una garanzia di benessere.. e il concetto autentico di Cura viene meno o completamente distorto. La cura diventa spesso ipercura della superficie, lasciando fuori la complessità della profondità che implica un’elaborazione mai priva di difficoltà, o manutenzione psicocorporea, in cui correggere difetti e storture esterne o interne, spogliandosi di tutto ciò che è negativo e non può essere tollerato, semplicemente scansandolo dalla vista, diventa prioritario. In realtà ci dimentichiamo che la cura richiede necessariamente una relazione, nel senso più ampio del termine:

“Prendere cura implica la reciprocità, l’incontro di un coinvolgimento con un altro coinvolgimento. Nessuno si coinvolge da sé.

Il primato della cura di sé, non è forse la sua assenza la malattia mortale della nostra società? Non aver cura di sé vuole appunto dire non coinvolgersi, non essere attenti alle differenze, in breve essere indifferente. Quanto alla reciprocità, essa è la forma complessa e completa della cura: è il momento in cui la vita, di cui abbiamo cura, ha a sua volta cura di noi.”

Sarantis Thanopulos e Aldo Masullo

Giardini interiori

“ La caduta delle foglie, la paralisi della vita durante l’inverno, lo schiudersi dei germogli, il movimento dell’acqua tra le rocce. Sono tutte esperienze che anche l’individuo fa, solo che le esprime con i concetti complessi della psicologia, mentre il giardino le esprime con il linguaggio della natura.”

J. Hillman

Giardino di Claude Monet a Giverny

Momenti emblematici del percorso di vita e del mondo interno di ogni individuo. La possibilità che questo possa avvenire in modo naturale e spontaneo è legato alla qualità del terreno su cui si è coltivato. A volte infatti può capitare di incontrare difficoltà nel fiorire nuovamente, dopo un rigido inverno, rimanendo bloccati in uno stato emotivo particolare o affettivamente congelati. Entrambe le condizioni ci segnalano un grande impegno difensivo della nostra psiche per mantenersi in equilibrio in una difficoltosa realtà. La vita sembra proseguire a stento, permanendo in uno stato embrionale di inespressività, le esperienze negative ripetersi, un senso di vuoto e di mancanza di significato insinuarsi in modo sempre più consistente. Momenti in cui l’individuo può prendere contatto con la difficoltà di germogliare sul terreno arido in cui ha affondato le proprie radici. Proprio come le natura ci insegna che è necessario un terreno fertile, nutrimento e luce per poter sbocciare e sopravvivere all’inverno, alla nostra anima potremmo allora offrire la possibilità di essere ospitata in uno spazio vitale, in cui la cura necessaria è tangibile nell’attenzione per i bisogni autentici, a partire proprio dal loro riconoscimento: elementi essenziali che alimentano la capacità di sopravvivere a condizioni sfavorevoli ed impervie, la solidità, il coraggio di esprimersi e di essere autenticamente se stessi.. e allora il movimento e la continuità dell’esperienza possono riattualizzarsi e l’individuo torna a fiorire ancora.

Coltiviamo giardini interiori, l’anima come il giardino richiede cura: attenzione, premura, bellezza.